La scuola da chiusa sta permettendo a tutti di guardarla dentro. Da vicino.
È come se l’epidemia l’avesse svestita permettendo a tutti di vedere quello che era già evidente a pochi. O meglio, quello che – seppur evidente – era denunciato da pochi e inascoltato da tanti: il diritto allo studio non è lo stesso per tutti e dire scuola aperta a tutti non significa pari opportunità, ancora meno equità negli esiti.
La didattica nell’emergenza sta funzionando da late di ingrandimento sui nodi critici della scuola, erodendo alcuni luoghi comuni: “la scuola è aperta a tutti”, “tutti hanno pari opportunità”.
Contestualmente, però, la chiusura della scuola sta modificando la percezione che si ha del suo ruolo, sbanalizzando l’ovvio, e riportando nel dibattito pubblico la sua fondamentale funzione, restituita pienamente alla sua dimensione sociale di presidio di democrazia.
La scuola è aperta a tutti. La didattica a distanza, ora resa obbligatoria dal nuovo decreto del Ministero dell’Istruzione, è di fatto discriminante. Esclude quanti non possiedono: dotazione tecnologica, connessione e genitori che possono mediare e aiutare nella relazione con la tecnologia e le richieste degli insegnanti.
A scuola chiusa il lasciare “fuori qualcuno” è diventato intollerabile da parte di chi non si è forse mai accorto delle esclusioni della scuola in presenza. La consuetudine dei compiti, assegnati anche a bambine/bambini che non hanno a casa con chi farli; le gite scolastiche e i viaggi d’istruzione troppo cari per chi non arriva a fine mese. La non individualizzazione dei percorsi, che lascia fuori sempre qualcuno: il bambino che non parla italiano, chi non ce la fa, chi ha altre urgenze interiori in quel momento, chi a scuola non ci va proprio, spesso nell’indifferenza degli adulti di riferimento e delle istituzioni preposte al controllo del rispetto dell’obbligo.
Quelli che vengono tenuti fuori dalla lezione perché uguale per tutti, in un faccia a faccia con l’insegnante e il libro, dove scompare il soggetto e gli altri che gli stanno intorno. A volte si è lasciati soli nell’apprendimento in classe come davanti allo schermo di un pc.
E c’è chi, tra gli esclusi, comincia a protestare. Come la mamma albanese di un’alunna di Dario, maestro di Urbino, che non avendo né pc né connessione ha detto a muso duro alla DS che sua figlia gliela avrebbe riportata a settembre “così com’è”, visto che alle insegnanti era stato impedito di usare whatsapp, l’unico mezzo che lei aveva per “far andare sua figlia a scuola” e che per molti insegnanti si sta mostrando il più democratico. Al punto da indurli a “disobbedire” alle note dei DS che ne hanno vietato l’uso. Quando la disobbedienza si fa virtù.
La scuola offre pari opportunità formative. Le pari opportunità implicano “dare di più a chi ha di meno”. A scuole chiuse e con la sola didattica a distanza questo è stato chiaro e sono state prese misure di “discriminazione positiva”: mettere in condizione le scuole di acquistare strumentazione informatica per chi non ce l’ha. Pari opportunità d’accesso al diritto allo studio. La stessa cosa andrebbe e andrà fatta, fuori emergenza, per dare più tempo pieno, nidi e sezioni di scuola dell’infanzia alle aree del Paese dove più forti sono le povertà educative.
A scuole chiuse, molti genitori si stanno finalmente lamentando della miriade di schede che i loro figli devono completare. Perchè in alcuni casi, fortunatamente pochi, si arriva all’assurdo.
Sara ha due figli. È in lavoro agile da funzionario della pubblica amministrazione. Ha computer, stampante e due bambini che frequentano la terza e seconda elementare. Ogni giorno le maestre inviano sul suo whatsapp schede di lavoro. Lei deve stamparle, farle fare ai figli, scannerizzarle, trasferirle sul suo whatsapp e inviarle alle maestre. Senza poi nessuna restituzione.
Ma qual è il senso pedagogico di queste proposte?
Molti altri insegnanti invece stanno facendo degli sforzi grandi non solo per essere vicini ai bambini, alle loro famiglie, ma per costruire apprendimento. Stanno sperimentando da soli, collegialmente, lavorano molte ore al giorno per proporre percorsi di senso alle loro bambine/bambini, studentesse/studenti. Opportunità che ai figli di Sara non è stata concessa perché a volte è troppa è la differenza nell’esercizio del “mestiere” dell’insegnante.
La didattica a distanza sta rendendo chiaro che la formazione dei docenti genera disuguaglianze. E non si tratta solo di capacità tecnologiche, ma della capacità di imparare ad imparare, di dare significato all’esperienza, di attribuire senso pedagogico a quello che si fa e si propone come insegnanti. Anche in presenza.
La scuola italiana non può contare su dispositivi coerenti e lineari per la costruzione delle professionalità dell’insegnante. Basti pensare alle alterne vicende dei corsi abilitanti previsti per accedere all’insegnamento della secondaria e oggi del tutto scomparsi. Con soli 24 crediti formativi acquisiti nel percorso di laurea disciplinare, nessun tirocinio, nessun laboratorio e rapporto con la scuola, si può partecipare ai concorsi. Così come si può accedere all’insegnamento con procedure di reclutamento straordinarie, semplificate e necessarie per risanare il forte gap del precariato. Gap che non finisce mai.
Si va avanti così da decenni ed è così che la scuola italiana ha mille velocità. La più bassa è quella che le danno gli insegnanti che restano ancorati al “programma”, inesistente, a un approccio trasmissivo, che hanno difficoltà di progettazione e di valutazione formativa, che non individualizzano i percorsi, che pongono scarsa attenzione al gruppo facendo prevalere il lavoro individuale. In queste corsie della scuola non c’è la rimozione degli ostacoli, costituzionalmente dovuta, e di anno in anno le disuguaglianze d’ingresso vengono, dalla scuola in presenza, riconfermate.
Gli OO. CC. complicano il lavoro e l’autonomia della scuola. Un altro luogo comune molto diffuso. Ma al contrario, il dialogo che si costruisce nella scuola tra insegnanti, DS e famiglie/studenti definisce e qualifica il suo grado di inclusione. Lo stiamo vedendo bene ora a scuole chiuse. Gli istituti scolastici che hanno investito sulla partecipazione democratica, sugli OO.CC., sul ruolo dei rappresentanti di classe hanno nel tempo costruito un capitale sociale per la scuola, che diventa capitale anche per il quartiere, il territorio. Molte le narrazioni: il sindaco che, sollecitato dalla scuola, chiede ai suoi concittadini l’accesso alla connessione per i bambini che abitano nello stesso condominio, la staffetta degli adulti al fine di avvicinarsi alla cassetta postale di famiglie sprovviste di pc e di telefono…
I rappresentanti di classe, i Consigli d’Istituto, la collaborazione con l’ente locale e le associazioni del territorio, nell’emergenza stanno facendo da cerniera per tenere insieme la comunità scolastica e la popolazione civile. Questo è il senso profondo della partecipazione democratica alla vita della scuola e che dovrebbe essere patrimonio di tutte le realtà scolastiche.
Va ricostruito il paradigma politico e pedagogico che è alla base della partecipazione democratica: il prendersi cura dell’educazione, della scuola, dei minori e della loro crescita, sapendo che da questo dipende il futuro del nostro Paese e della sua stessa democrazia. Sentirlo come un compito collettivo, da affrontare insieme, condividendone le responsabilità anche se con ruoli e competenze diverse. Occorre per questo ripartire dalle funzioni e dalla valorizzazione degli OO.CC., oggi estremamente burocratizzati e impoveriti, attraverso un’immediata azione di riordino e riforma.
Questo è un tempo scuola “straordinario”, da attraversare in modo critico, ma che può essere fortemente generativo, e non può essere messo tra parentesi.
Non si tratta di capire come restituire il debito formativo accumulato nei confronti degli alunni a scuola chiusa, ma di un ripensamento immediato e profondo dell’educazione, delle politiche scolastiche, di quelle sociali, ma anche del nostro stesso lavoro di insegnanti, educatori, dirigenti scolastici.
Vanno cambiate le categorie con le quali ancora sono intrisi i pensieri e i linguaggi del Ministero dell’Istruzione. La scuola non avrà bisogno a settembre di corsi di recupero rivolti ad alunni isolati (quelli dei 4 della didattica a distanza, non si sa bene come attribuiti), ma di più risorse per tutti nell’ordinarietà del fare scuola: tempo pieno, più insegnanti, compresenze.
Vanno, a partire dalla scuola, costruite reti solidali, alleanze pedagogiche coinvolgendo famiglie, amministratori, associazioni di volontariato, del terzo settore; aperte le scuole al territorio e fatti entrare i territori nelle scuole.
Noi insegnanti, dirigenti dobbiamo guardare con fiducia e apertura a questo tempo.
Accogliere, come stiamo facendo, la sperimentazione che ci sta imponendo, attraversarla con responsabilità, impegno, disponibilità ad affrontare il nuovo e ad imparare nuove pratiche.
La didattica a distanza è solo per l’emergenza, ma ci sta permettendo in questa fase, con la classe virtuale, la telefonata, l’uso di whatsapp, di continuare ad esprimere la nostra intenzione educativa, il nostro agire pedagogico. Ad esserci come presidio fondamentale per la vita dei minori, per dare loro ascolto, per il loro apprendimento che nasce anche dall’attraversare questa eccezionale esperienza, che è dentro la nostra vita.
Quanto la scuola sia necessaria per la vita individuale e sociale è ormai una certezza per tutti. Partiamo da qui, da quello che l’emergenza ha reso ormai evidente, per non tornare alla normalità della scuola ante Covid-19.
La scuola va messa al centro del progetto democratico del Paese. Va aperto un tavolo di confronto tra Ministero, scuola, corpi intermedi, società civile per costruire insieme scenari diversi, capaci di superare gli ostacoli, i nodi critici delle politiche scolastiche e costruire insieme una nuova paideia.
Anna D’Auria