Eliminati i voti alla scuola primaria dall’a.s. 2020/2021. Questa la mediazione approvata dalla VII commissione cultura al Senato all’emendamento presentato da alcuni senatori del PD e che nella proposta iniziale doveva partire da quest’anno.
Il Movimento di Cooperazione Educativa accoglie favorevolmente questa decisione politica, e ringrazia i parlamentari che l’hanno promosso, ma …senza grandi entusiasmi. Inoltre, siamo enormemente delusi per il mantenimento dei voti per questo scorcio di anno scolastico tarpato, dopo mesi di didattica a distanza che ha reso ancora più evidenti a tutti le criticità legate alla valutazione con voto in decimi che, a scuola chiusa, ancora di più sottolinea e accentua le difficoltà economiche, sociali, culturali di numerosi studenti e delle loro famiglie.
Siamo stati fra i primi nel 2015 a sollevare il problema della valutazione degli apprendimenti e dell’esigenza di ricerca, elaborazione e formazione. Con molte altre associazioni professionali, educative, sindacali e dei genitori abbiamo chiesto l’abolizione del voto almeno nel primo ciclo d’istruzione, denunciando la semplificazione di un’operazione complessa come la valutazione, trasformata con il voto in una semplice “misurazione” incapace di promuovere e contribuire all’evoluzione dei soggetti. Siamo partiti dalla profonda consapevolezza pedagogica e politica che la scelta dei mezzi attraverso i quali si valuta non è indifferente/neutra rispetto al raggiungimento dei fini che la stessa valutazione si pone. E questo lo sapevano già negli anni ’50 Freinet in Francia e gli “eroi disarmati” della pedagogia italiana: Tamagnini, Ciari, Don Milani, Lodi che ci hanno lasciato come impegno e testimonianza politica le pratiche della scuola attiva e la pedagogia dell’emancipazione. E se la Scuola italiana non ha raggiunto i risultati che ci si aspettava (in termini di successo scolastico, di riduzione della dispersione e degli abbandoni) non è a causa di questi Maestri e delle loro proposte pedagogiche, di fatto mai diventate pratiche diffuse nella scuola italiana (non sono la causa della crisi della scuola, come sostiene qualcuno, sarebbero state e possono essere invece la soluzione all’insuccesso del compito educativo della scuola).
Era chiaro a questi pedagogisti che gli strumenti con cui si valuta hanno il “potere” di dar luogo a due diverse ed opposte prospettive di politica scolastica e conseguentemente di approccio didattico-metodologico: produrre l’emancipazione dei soggetti, riuscendo a garantire a ciascuno, accanto all’esperienza della dignità, del valore personale, sociale, l’esperienza del successo formativo. Oppure produrre normalizzazione che, in una società non egualitaria, si traduce nel mantenere, (se non nell’amplificare) le differenze di ingresso a scuola. Ora, tenuto conto del livello di mobilità sociale in Italia e di come le condizioni socio-economico-culturali di partenza condizionino di nuovo e fortemente gli esiti scolastici, possiamo affermare che la scuola italiana produce più normalizzazione che emancipazione di bambini/studenti.
Del resto, il fatto che le modalità di valutazione veicolino una precisa idea di scuola e di società, è confermato dall’analisi degli sviluppi della normativa in Italia nelle diverse stagioni politiche. Sulla grande apertura della L. 517/77 (classi aperte, integrazione, programmazione, sostituzione dei voti con schede di valutazione), nella stagione delle grandi riforme sociali e scolastiche, è calata la ‘gelata’ delle politiche regressive introdotte prima con la Riforma Gelmini nel 2008 che ripristinò i voti, seguita, nonostante le promesse, dal D.Lgs 62/2017 della Buona Scuola che li ha riconfermati.
Politiche queste ultime che non riescono a tradurre nei dispositivi valutativi quanto previsto dall’articolo 3 della Costituzione: compito della Repubblica è la rimozione degli ostacoli per il pieno sviluppo della personalità di ognuno/a. Eppure questa dovrebbe essere il senso e la funzione del percorso della scuola dell’obbligo, di questa esperienza formativa che, con la legge 296 del 2007, lo Stato garantisce e alla quale “costringe” ogni cittadino sino ai 16 anni.
“Favorire il pieno sviluppo della persona nella costruzione del sé, di corrette e significative relazioni con gli altri e di una positiva interazione con la realtà naturale e sociale. Fornire ai giovani gli strumenti per l’acquisizione dei saperi e delle competenze indispensabili per il pieno sviluppo della persona in tutte le sue dimensioni e per l’esercizio effettivo dei diritti di cittadinanza”. Così recita la legge sull’obbligo scolastico.
Ma se scopo della scuola dell’obbligo è formare i futuri cittadini, allora i mezzi che la valutazione usa dovrebbero essere concepiti come funzionali unicamente a questo scopo. Cosa che non fa il voto che invece classifica, seleziona, mortifica, fotografa una situazione senza cogliere gli elementi del processo personale e di gruppo e finendo con l’attribuire la responsabilità dell’insuccesso unicamente allo studente e alla sua storia personale allorché l’intervento educativo, in una concezione pedagogica depositaria (la pedagogia dell’imbuto, direbbe la ministra Azzolina), non è riuscito ad accendere motivazione, conoscenze e sapere.
Nei primi anni ‘60 Freinet scrive “Les plans di travail” “Travail individualisé et programmation” (1966). Entrambi i lavori si ponevano nell’ambito del discorso pedagogico della scuola attiva in cui la valutazione è concepita unicamente come funzionale al controllo del lavoro, dei progressi, della difficoltà del soggetto, e non è mai un giudizio sulla sua persona.
Progettazione, valutazione, ri-progettazione, preparazione e pluralità dei materiali, strumenti di comunicazione, ricerca, approccio cooperativo sono gli elementi centrali della Pedagogia Popolare che è essenzialmente una Pedagogia dell’emancipazione
È evidente allora che eliminare il voto solo alla primaria non può bastare. Deve necessariamente essere esteso almeno a tutto il primo ciclo, se non alla scuola dell’obbligo come da noi proposto nella campagna “Voti a perdere” lanciata nel 2015 e riproposta a settembre 2019.
Ora uno spiraglio si è aperto, per quanto non soddisfacente. É innegabile infatti che aver eliminato i voti alla primaria è già un “qualcosa” per promuovere una svolta nella cultura del Paese in tema di valutazione. Cultura il cui prevale, in una società a forte impronta neo-liberista, l’ideologia del merito e una concezione selettiva, classificatoria, a cui sono stati subordinati la valutazione scolastica e il compito educativo della scuola.
Tuttavia, c’è da chiedersi quale visione di scuola veicola la differenziazione della modalità valutative tra primaria e secondaria di I grado compresi nello stesso percorso scolastico. Cosa cambia nel compito emancipativo della scuola verso un bambino di 8 anni e un preadolescente di 13?
Inoltre: come è possibile pensare a strumenti valutativi così diversi come il giudizio da un lato, il voto dall’altro, le certificazioni delle competenze dall’altro ancora, all’interno del percorso del primo ciclo di istruzione, della realtà degli Istituti comprensivi e di Collegi unitari composti da insegnanti della primaria e della secondaria di primo grado che dovrebbero lavorare insieme ad un curricolo unitario, verticale rispettoso delle Indicazioni Nazionali?
Una riflessione va poi fatta sull’introduzione del giudizio descrittivo. Affinchè esso non riproponga, facendo uso di aggettivi/avverbi, l’approccio classificatorio, centrato sulla “prestazione”, poco attento al processo, analogo negli effetti al voto, è necessario prevedere misure straordinarie di formazione obbligatoria per tutti gli insegnanti sul tema della progettazione e della valutazione degli apprendimenti.
Abbiamo sempre sostenuto che non basta rimettere in discussione l’apparato normativo sulla valutazione, ma che questa azione per essere efficace deve essere sostenuta da idonee misure formative, di accompagnamento degli insegnanti per ripensare la didattica, la progettazione curricolare e la valutazione formativa come momento strettamente interdipendente con la progettazione e con l’organizzazione della classe. ‘Liberare’ la scuola dai voti deve andare necessariamente insieme al liberare la scuola dal fantasma del programma da svolgere. Altrimenti con o senza voti faremo ancora i conti con insuccessi/abbandoni/povertà educative che continueranno a rappresentare un gravissimo vulnus democratico, un’ipoteca sul futuro di tutti e del futuro del Paese.
Noi del Movimento di Cooperazione Educativa continuiamo a lavorare con coerenza e grande determinazione politico-pedagogica a questi temi e nella direzione di una valutazione omogenea, orientativa, umana perchè funzionale all’emancipazione dei soggetti in tutti gli ordini di scuola senza la quale non si dà cittadinanza e cura del bene comune come antidoto a individualismi, privilegi e classismo.