Sulla scuola di Via Trionfale a Roma.
Il diritto all’istruzione scolastica è garantito ed è obbligatorio sino ai 16 anni. Sul fatto che la scuola sia aperta a tutti, quindi, non ci sono dubbi. Così come sul fatto che dire “aperta a tutti” non ha mai significato di fatto riconoscere a tutti uguali opportunità e uguali diritti, come dimostrano le considerevoli differenze nei risultati scolastici in aree diverse del Paese e tra centro e periferia.
Da sempre la presenza di scuole o classi ‘migliori’, e per questo scelte dai genitori, o, ancora peggio, l’adozione di procedure di formazione delle classi non democratiche e inclusive continuano a rappresentare un elemento di grave fragilità del nostro sistema scolastico e di denuncia della sua incapacità di rispondere al mandato costituzionale.
Ciò, accanto all’assenza di interventi perequativi per i territori più svantaggiati, al numero di alunni per classe, alla burocratizzazione e alla standardizzazione del lavoro docente, e al depotenziamento delle prerogative del collegio docenti…
Tuttavia, è soprattutto negli ultimi anni che i dati ci restituiscono il quadro di una distribuzione della popolazione scolastica allarmante nella scuola pubblica: in uno stesso quartiere si sta verificando che scuole/plessi accolgono in prevalenza famiglie del ceto medio/alto e in altri invece si concentra un’alta percentuale di figli di non italiani, Rom, Sinti, o figli di italiani in condizione di deprivazione culturale e materiale. In questo caso, a fronte di una popolazione residente eterogenea nella sua composizione socio-economica e culturale, le scuole accolgono una platea omogenea. A decidere quale portone varcherà l’alunno è la condizione sociale e il grado di istruzione della sua famiglia. Allora è come dire che la scuola, pur restando aperta a tutti, non permette l’ingresso dallo stesso portone.
È difficile pensare che questo sia successo alla scuola italiana che già negli anni ’70 ha abolito le classi speciali ponendosi, rispetto agli altri paesi d’Europa, come apri-pista e modello nei processi di inclusione scolastica. Cosa è successo alla scuola? Come è possibile pensare che l’assenza di alunni stranieri e disabili possa rappresentare un elemento di attrazione delle iscrizioni in un liceo, o che la descrizione minuziosa del contesto di appartenenza degli alunni nei plessi di un istituto comprensivo possa essere “neutra” rispetto alle strategie che l’istituto stesso è chiamato a mettere in essere per produrre inclusione, equità, coesione sociale nel territorio in cui opera? Qual è la visione di scuola soggiacente a queste operazioni? Ed è solo responsabilità della scuola?
Sono queste le domande che episodi come quelli denunciati l’anno scorso al Liceo Visconti e quest’anno all’ I.C. di Via Trionfale, entrambi istituti di Roma, fanno porre. Fatti che sicuramente rappresentano solo la parte visibile di un fenomeno che sta aumentando e sul quale bisogna riflettere e intervenire con urgenza, se ancora il modello di scuola al quale il MIUR, gli insegnanti, i genitori e le famiglie, devono ispirarsi e proporre alla comunità di un territorio è quello di una scuola aperta, inclusiva, democratica.
Libertà di scelta della scuola
Dagli anni ’80 con l’introduzione della libertà di scelta per i genitori dell’istituto in cui iscrivere i figli, la cosiddetta “abolizione del bacino d’utenza”, chi può sceglie la scuola che ritiene ‘migliore’. Per alcuni (e purtroppo sono molti) è quella senza stranieri, senza disabili; per altri quella che offre (e a pagamento) il corso d’inglese, di danza o di atletica nel post scuola, o semplicemente quella fornita di palestra…, anche se più lontana. In quella sotto casa, considerata “peggiore”, restano gli stranieri, i disabili, i poveri, quelli che non si avvalgono della libertà di scegliere, perché non hanno sufficienti condizioni culturali e materiali per poterlo fare. Se poi la scuola ha più plessi, anche se ognuno accoglie una popolazione scolastica omogenea per etnia, condizione economica, i conti tornano: nel totale dell’istituto non si perdono iscritti, non si riduce l’organico e si è soddisfatti anche se solo per una parte degli iscritti dell’istituto si raggiungono buoni risultati. Accade nel macro quanto avviene a volte in una singola classe: contano i buoni risultati di alcuni alunni, per sentirsi nel giusto della professione, più che il successo per tutti. Questo tipo di segregazione va distinta da quella delle periferie emarginate (come Scampia), dove l’omogeneità della popolazione scolastica riflette pienamente le caratteristiche di un territorio in cui si concentrano le povertà per l’assenza di politiche sociali, abitative e migratorie inclusive. O anche a causa di politiche sociali, abitative e migratorie discriminanti.
Autonomia scolastica
Il processo di riconoscimento dell’autonomia scolastica, che poteva rappresentare il punto di leva per la qualificazione del sistema scolastico, non ha sino ad ora dato i risultati voluti. È stato interpretato e agito nella più catastrofica visione, quella aziendalistica. A partire dal MIUR e dai dispositivi normativi su cui esso ha insistito nel tempo, alle scuole è stato chiesto di “diventare imprenditrici di se stesse”. Fare buona offerta (formativa), saper comunicare, soddisfare l’utente, acquisire iscrizioni, essere competitiva sul mercato, garantirsi il mantenimento del personale. Almeno questo è passato, se gli istituti scolastici, nella penuria di risorse, “acquistano” una pagina di una testata nazionale per pubblicizzare l’open day: giornata porte aperte per mostrare ai genitori strutture, attività, personale della scuola nella speranza di attrarre iscrizioni anche fuori dalla comunità territoriale.
Diversi sono stati i dispositivi che hanno chiesto alla scuola di funzionare come una palestra di competizione, di farsi portatrice di una logica meritocatica, premiale, selettiva che va dal modo in cui si valutano studentesse e studenti al modo in cui si valutano le scuole, passando attraverso la valutazione degli insegnanti e dei dirigenti. Tra questi dispositivi il portale Scuola in chiaro dove vengono pubblicati in automatico il Piano dell’offerta formativa (PTOF) e il Rapporto di Auto Valutazione (RAV) degli istituti scolastici. Sul sito del MIUR si legge: uno strumento utile, soprattutto per le famiglie che, in occasione delle iscrizioni online, devono orientarsi nella scelta della scuola. Tale area offre il prospetto delle informazioni relative a tutte le scuole italiane, di ogni ordine e grado. A partire da una pagina di ricerca e utilizzando tre distinti criteri, è possibile localizzare le scuole, visualizzare i contenuti delle singole schede informative ed effettuare un confronto sulla base di alcuni parametri.
Ed è così che l’analisi e la descrizione del contesto, necessaria alle scuole per l’elaborazione della proposta formativa, diventa comunicazione alle famiglie ed elemento di scelta della scuola. Ma affidandosi a quale logica?
Per il governo di un sistema complesso come la scuola, è sicuramente necessario valutare, comunicare, dichiarare quello che si fa. Rendere consapevoli le famiglie della proposta formativa della scuola. Ma questa operazione non può rispondere a logiche pragmatiche e funzionalistiche dove all’idea di scuola e di soggetto, portatrici di valori, si fa prevalere la logica della scuola mercato e del soggetto consumatore. Logiche che insistono unicamente sull’esercizio delle libertà individuali perdendo di vista la scuola come bene comune, come istituzione di tutti, come mezzo per il raggiungimento di risultati individuali, ma nella prospettiva di una costruzione collettiva, che è la convivenza civile. Il sistema scolastico svolge una funzione essenziale per lo Stato democratico: la formazione dei cittadini. È un’Istituzione della Repubblica, non può essere ricondotta unicamente a un servizio alla persona.
Stefano Laffi in “La congiura contro i giovani” nel 2014 scrive:
“C’è un luogo in cui gli adulti danno appuntamento ogni giorno ai ragazzi, un luogo scelto per l’incontro e per lo scambio. È un luogo molto atteso e lungamente decantato in famiglia (…). In fondo quello è il laboratorio progettato per un preciso esperimento: una generazione consegna il meglio delle sue scoperte, idee e intuizioni a un’altra, più giovane, perché questa possa lì formarsi e acquisire gli strumenti per contribuire a questo giacimento, conservandolo e insieme spostando la frontiera della conoscenza. È un esperimento lunghissimo: si entra bambini e si esce ragazzi, si consumano lì l’infanzia e l’adolescenza, nessun altro luogo chiederà tanto tempo, pazienza, attenzione. (…) è il primo appuntamento obbligatorio della vita, è la prima e unica volta in cui viene detto: Se non ci vai ti vengono a prendere a casa”.[1]
Eppure come “luoghi”, dice Laffi, le scuole non si vedono, non sono indicate nelle mappe di una città, non sono curate; non si investe sugli spazi in cui milioni di bambine, bambini, ragazze e ragazzi vivono ogni giorno e per molti anni.
E investire non è rendere trasparenti le scuole, ma creare le condizioni concrete e fornire gli strumenti per realizzare una scuola capace di farsi presidio di democrazia. A partire da un governo della scuola, centrale e periferico, più attento, lungimirante, coerente, capace di essere generativo di cambiamenti positivi nelle realtà su cui il suo operare incide.
[1] Stefano Laffi – La congiura contro i giovani. Crisi degli adulti e riscatto delle nuove generazioni – 2014 – Feltrinelli